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Data : 7/2/2005
L'avicoltura nella provincia di Forlì

1. Il paesaggio agrario
Nelle varie regioni italiane lo sviluppo produttivo avicolo, come è già stato detto, non si è equamente distribuito. Questa diversità è stata determinata da una molteplicità di fattori ed ha interessato, a volte, territori contigui e dalle caratteristiche apparentemente simili : nel Forlivese la produzione avicola ha registrato nella seconda metà di questo secolo un incremento vertiginoso, mentre nel Ravennate lo sviluppo produttivo di questo settore è stato molto più lento e non ha raggiunto le stesse dimensioni.
Quali presupposti hanno provocato tale diversità e che cosa ha consentito alla provincia anticamente denominata Forum Livii di sviluppare così ampiamente questo tipo di attività è quanto cercheremo di evidenziare, inquadrando il tessuto culturale, economico e sociale su cui questo importante fenomeno si è innestato.

IL PAESAGGIO RURALE DELL’APPENNINO: il territorio della Provincia di Forlì è caratterizzato da un’ampia fascia collinare (Kmq 1296,79), mentre le zone montane (Kmq 659) e pianeggianti (Kmq 954,76) sono di estensione minore. Tale diversità fisica del territorio ha determinato da sempre una differenziazione fra gli insediamenti e le attività nelle diverse aree della Provincia.
La civiltà che si è sviluppata su questo territorio è stata fin dai tempi antichi legata al mondo rurale ed alla cultura contadina, assumendo forme particolari in base alle zone di insediamento.
In collina e in montagna si avevano coltivazioni diverse dalla pianura: sui rilievi si evidenziava la minor estensione degli appezzamenti, situati nelle zone dove si poteva maggiormente sfruttare il terreno e la variazione delle colture nell’ambito del piccolo appezzamento era superiore per soddisfare il fabbisogno alimentare della famiglia. Il frumento e il mais venivano coltivati in quantità appena sufficiente per la necessità della comunità. In collina, per l’ottima qualità dei vini, hanno avuto grossa importanza le coltivazioni dei vigneti. Le case rurali che si ergevano dalle cime delle colline, si trasformavano in case più tozze e solide ed in capanne ricoperte di materiali vegetali man mano che si saliva sulla montagna. Le numerose strade rotabili che attraversavano la pianura si perdevano progressivamente con l’avvicinarsi al monte, dove venivano surrogate da mulattiere e da stretti sentieri. I carri a quattro ruote della pianura si trasformavano in carretti a due ruote, per venire sostituiti, dove il dislivello era maggiore, da veicoli privi di ruote: le cosiddette tregge.
La proprietà fondiaria era molto divisa, sminuzzata, e numerosi erano i piccoli possedimenti. Nella prima metà dell’Ottocento, con un carico demografico di un quarto inferiore a quello della metà del Cinquecento, le coltivazioni sui rilievi romagnoli non superavano il 16% del suolo, mentre in pianura, scendendo verso il mare, la percentuale di utilizzo agricolo superava l’80%.
Antichi insediamenti sorsero lungo le valli appenniniche, caratterizzati da dimensioni minime e da abitazioni sparse lungo le pendici.
In questi centri vallivi ed isolati era praticata una zootecnia semi - brada, soprattutto per bovini ed ovini, mentre vicino alle abitazioni trovavano ricovero ed alimento anche un discreto numero di animali da cortile.

IL PAESAGGIO RURALE DELLA PIANURA: la pianura e la bassa collina erano caratterizzate da proprietà fondiarie di dimensioni maggiori e venivano condotte prevalentemente a mezzadria. Dal territorio venivano ricavate consistenti quantità di frumento e di mais, mentre le stalle custodivano, generalmente, numerosi animali di media e grossa taglia, alimentati dai foraggi prodotti dal podere.
In pianura è ancora oggi evidente la suddivisione territoriale derivata dalle centurie romane, caratterizzata da appezzamenti rettangolari intersecati da una buona rete viaria e da numerose canalizzazioni di scolo per le acque superflue.
Il facile approvvigionamento di mangimi naturali, la disponibilità di spazio e la grande densità della popolazione sparsa nella pianura centuriata sono stati i fattori che hanno favorito l’allevamento degli animali di bassa corte presso le famiglie.
La pianura della provincia di Forlì era suddivisa in poderi che, per la loro conduzione, richiedevano un solo nucleo familiare ; poderi quindi abbastanza estesi ma che non raggiungevano le estensioni di quelli delle vicine province di Ravenna o Ferrara.
Il panorama rurale forlivese risulta formato da insediamenti più diffusi, con abitazioni di minor cubatura e con una densità di popolazione molto alta rispetto alle sopracitate province; caratteristiche queste che hanno portato alla necessità di allevare numerosi capi di bestiame, fra cui le razze avicole.


2. Norme e consuetudini dell’avicoltura rurale
In avicoltura non si crearono i gravi contrasti che sorsero fra allevatori di bovini - ovini ed agricoltori, ma solo divergenze per la gestione comune del pollaio e del podere da parte della famiglia contadina. La pollicoltura rurale era un’attività praticamente operata dalle donne : la massaia accudiva la chioccia (che cova le uova ed alleva i pulcini), portava al mercato i capi o le quantità di uova che eccedevano il consumo famigliare ed il ricavato era usato per le piccole spese domestiche.
Per alimentarsi gli animali razzolavano per i campi o per il cortile in cerca di cibo; alla sera la massaia provvedeva ad integrare tale alimentazione con pastoni o granaglie. Di notte questi animali erano rinchiusi nei pollai o in appositi locali per proteggerli dalle intemperie, ma soprattutto da predatori e da "ladri di polli" che la tradizione descrive come personaggi costretti dalla fame a compiere ruberie. Nei periodi invernali questo tipo di produzione subiva drastici cali e le uova necessarie per il fabbisogno familiare venivano conservate in appositi recipienti colmi di calce diluita.
Il rapporto fra colono e proprietario del fondo era disciplinato nei contratti agrari sotto il titolo regalie. A tale proposito il "Patto generale di mezzadria per la Provincia di Forlì" stipulato il 28/11/1933 all’art. 57 stabiliva : "Quando il concedente, consentendolo le condizioni del podere per estensione, giacitura, dotazione di pascoli naturali, ecc., ritenesse di fare una pollicoltura razionale, l’allevamento del pollame sarà fatto in comune, e le spese e gli utili relativi saranno divisi a metà fra le parti. Quando invece il colono col consenso del concedente, eserciterà per conto proprio l’industria del pollame, verranno determinate nella "scritta colonica", le qualità e le quantità degli animali da tenersi in azienda, nonché il contributo annuo che il colono a titolo di rimborso e compenso, dovrà corrispondere al concedente. Di regola non sarà permesso al colono nei poderi di media superficie di tenere più di cinque galline, di allevare in varie volte più di dodici pollastri e tre capponi per ettaro di superficie da calcolarsi questa solo fino a dodici ettari, anche se la superficie del podere fosse superiore. Il contributo da corrispondersi dal colono al concedente in base ai quantitativi unitari previsti sopra, sarà globalmente non superiore ad un ottavo dei capi allevati".
Le sopra citate disposizioni non eliminarono i contrasti fra mezzadri e proprietari e nel luglio 1954, su richiesta delle organizzazioni di categoria, il prefetto di Forlì emanò una serie di disposizioni per disciplinare ulteriormente la materia.
L’aumentata richiesta del prodotto dette vita ad una commercializzazione che fu sempre contenuta in ambito locale: a fianco del contadino produttore e venditore sorse la figura del raccoglitore chiamato nel dialetto romagnolo pularol.
I pularol erano persone che con piccoli veicoli giravano per le campagne acquistando dalle massaie pollame, conigli e uova che successivamente collocavano presso rivenditori al dettaglio o commercianti veri e propri.

3. La grande diffusione della mezzadria
Nella seconda metà del secolo XIX la mezzadria era ancora la forma di contratto agrario prevalente in tutta la Romagna. Secondo uno studio del Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio sui contratti agrari in Italia effettuato nel 1891, particolarmente in provincia di Forlì la terra si coltivava a mezzadria da tempi remotissimi e con una divisione degli oneri e dei profitti fra mezzadro e proprietario praticamente perfetta : "semenze, raccolti, concimi, foraggi, imposte a metà. Il proprietario fornisce di suo l’abitazione e il bestiame da lucro e da lavoro, fa e governa i bonifici novelli. Il colono fornisce gli arnesi e gli strumenti ordinari ; divide perdite e lucri del bestiame ; alleva a suo conto pollami, dandone pochi capi e poche uova in regalia al proprietario" .
Il censimento attuato nel 1871 aveva già rilevato che circa i 7/10 degli occupati nelle attività agricole in Romagna (circa il 43% della popolazione attiva globale) erano mezzadri ; la presenza mezzadrile poi raggiungeva punte particolarmente elevate nella provincia di Forlì, mentre nel Ravennate era in percentuale più numerosa la categoria dei braccianti per la presenza delle risaie e dei territori soggetti a bonifica.
La grande proprietà fondiaria era praticamente assente, mentre i piccoli proprietari, poco numerosi, vivevano in condizioni spesso molto precarie ed erano sotto molti aspetti assimilati ai mezzadri.
In provincia di Forlì la mezzadria godeva di un tale credito ed era quindi così generalizzata che anche i fittaioli, già scarsissimi, molto spesso davano a mezzadria i fondi che tenevano in affitto.
Questa netta prevalenza era anche frutto di una cosciente scelta politica, sociale ed economica delle classi dirigenti cittadine. Queste vedevano nella mezzadria un vero e proprio baluardo sociale ed economico, una forma di stabilità rigidamente controllata e di illuminata arretratezza che, grazie alle sue caratteristiche di immutabilità ed isolamento, era in grado sia di impedire la formazione di una coscienza imprenditoriale da parte del ceto contadino, sia di mantenere stabile la rendita agraria, scaricando sui mezzadri gran parte delle perdite ogni qual volta si verificava una congiuntura negativa.
Erano molti, infatti, i proprietari che si rivelavano ostili all’innovazione in campo agronomico al punto di giungere addirittura a sconsigliare ogni misura tendente a fornire una istruzione effettiva alle popolazioni rurali, ritenendo che questa avrebbe distratto il contadino dagli obblighi del proprio lavoro e ne avrebbe abbassato il livello morale ! Per questo motivo si riteneva più utile educare il contadino a sopportare il proprio stato, ispirandogli massime che lo aiutassero ad accettare ed amare la povertà e la fatica.
Il mezzadro, da parte sua, si considerava nonostante tutto un privilegiato, e temeva l’escomio che gli avrebbe fatto perdere la sua posizione facendolo cadere nella condizione del bracciante, che considerava come il peggior partito. Degradare allo stato di bracciante significava non avere più per sé e per la numerosa famiglia la protezione della "confortevole" casa colonica sita all’estremità più agevole del podere, al quale le continue cure conferivano l’aspetto del giardino ; significava ridursi nel tugurio dell’operaio agricolo, consistente di un vano basso, stretto, maleodorante, costruito sul margine della strada maestra in prossimità della chiesa parrocchiale. Significava anche estrema incertezza e precarietà del lavoro, nonché la frequente mancanza del minimo necessario per vivere.
Per questo motivo il mezzadro si assoggettava senza proteste alla rigidità del rapporto contrattuale, in base al quale i comportamenti imprevisti o insoliti potevano indurre il proprietario ad espellere immediatamente dal fondo il colono o chiunque della sua famiglia, e si comportava in modo estremamente prudente, rimanendo estraneo a qualsiasi impulso di trasformazione, sia economica che politica.
Tale situazione, però, spesso generava rancore intenso ed istintivo verso il padrone, ben dissimulato dalle manifestazioni di dipendenza (come l’obbligo del baciamano) alle quali comunque non ci si sottraeva e che rimasero in uso fino ai primi decenni del nostro secolo.
Si trattava, spesso, di umilianti forme di sottomissione, quali il diritto padronale alla visita della casa colonica in qualsiasi ora del giorno e della notte, al controllo del tenore di vita della famiglia, comprese le decisioni matrimoniali, le relazioni sociali, ecc.
L’intrusione padronale era finalizzata soprattutto al controllo della conduzione del podere, per il quale il mezzadro doveva essere messo in condizione di usare ogni forza fisica e mentale.
Tutto ciò non valse comunque a frenare la grande diffusione della mezzadria che, al contrario, continuò ad affermarsi come modalità prevalente di contratto agrario fino ai primi decenni del secolo attuale -".

4. La nascita dell’Avicoltura intensiva
Gli anni che seguirono la fine della seconda guerra mondiale furono quelli in cui l’avicoltura tradizionale subì un processo di trasformazione e specializzazione molto accelerato, che ne modificò completamente, in un breve arco di tempo, le caratteristiche tradizionali.
L’avicoltura intensiva per la produzione di polli da carne e di ovaiole iniziò ad insediarsi massicciamente nelle zone pre - collinari e collinari ad Est della Via Emilia negli anni 1950 - 1960 circa. In quegli anni, in Provincia di Forlì, si stava verificando un esodo consistente delle popolazioni della montagna e della collina, spinte dalle difficili condizioni di vita e dal basso reddito verso i centri urbani ed industriali della pianura dove le necessità della riconversione industriale e della ricostruzione offrivano maggiori possibilità di impiego e di guadagno. Così molte terre divenute marginali ed anche numerose abitazioni rurali vennero abbandonate.
Le ragioni che determinarono l’orientamento verso il comparto avicolo furono diverse, ma principalmente vi contribuì la prospettiva per le popolazioni di quelle zone di reperire una nuova spane di reddito, e tale obbiettivo fu certamente raggiunto. Si può affermare, che fu proprio l’Avicoltura intensiva a contribuire cospicuamente a frenare l’esodo in atto delle popolazioni collinari e montane verso i centri urbani. Questa situazione favorì quegli imprenditori agricoli che, pur avendo scelto di dedicarsi alla terra, si erano però resi conto che se volevano incrementare il loro reddito dovevano attuare un miglioramento delle tecniche agricole e una diversificazione delle attività lavorative.
L’Avicoltura, fenomeno nuovo che richiedeva un basso impiego di manodopera e limitati capitali, si presentò come l’attività ideale per la realizzazione di questi propositi. Il fenomeno coinvolse anche, in larga misura, lavoratori non agricoli come artigiani, operai e commercianti, spesso più disposti a rischiare dei contadini, tradizionalmente refrattari alle innovazioni ed ai cambiamenti.
Un gran numero di persone colse così l’occasione di sfruttare in maniera redditizia quei terreni e soprattutto quegli edifici che erano stati abbandonati e che, almeno inizialmente, si adattavano ad essere utilizzati per gli allevamenti in batteria. Anche se le statistiche non lo rilevano (poiché si trattò di un fenomeno transitorio come entità), in certe zone della collina e della montagna, dove l’esodo era stato più massiccio, il numero dei piccoli allevatori improvvisati e probabilmente privi delle primarie cognizioni di tecnica avicola, si allargò a macchia d’olio.
Questi primi insediamenti furono favoriti anche dalla concomitanza di altri fattori : un clima adatto all’allevamento per la relativa vicinanza del mare che modera le escursioni termiche, la sufficiente ventilazione ed una buona disponibilità di acqua, l’estremo frazionamento in poderi del territorio in un ambiente senza gravi dissesti che offriva spazi utilizzabili per lo scopo, la discreta accessibilità di queste zone grazie ad una sufficiente rete stradale che permetteva il rapido rifornimento di attrezzature e di mangimi e l’altrettanto rapido smercio dei prodotti, la relativa vicinanza dei mercati di consumo che con la loro consistente richiesta incoraggiavano la naturale intraprendenza della gente romagnola.
Nei primi tempi fu prevalente l’allevamento in batteria che consentiva, mediante la sovrapposizione delle gabbie, di occupare spazi minimi e i locali utilizzati erano destinati originariamente ad altri usi (abitazioni, stalle, magazzini).
Nelle zone dei comuni di Predappio, Sarsina (Ranchio) e Longiano si raggiunse la maggiore densità di aziende avicole in pochissimi anni: nel solo comune di Predappio iniziarono l’attività 160/180 allevamenti di piccole e grandi dimensioni. Fu una crescita rapida e disordinata, spesso gestita da operatori con pochi mezzi a disposizione e scarse conoscenze in materia, destinati a soccombere quando si verificarono le primi crisi di mercato.
Gli allevamenti avicoli si estesero in seguito rapidamente verso la pianura, in particolare nei comuni di Forlì e Cesena. In questo caso l’esodo della popolazione non ebbe un’influenza così determinante, mentre furono le condizioni in complesso migliori dei territori pianeggianti e pre - collinari a stimolare una vasta diffusione dell’avicoltura intensiva in tali zone.
Se sotto il profilo igienico - sanitario e climatico, la situazione poteva sembrare più favorevole in collina, non bisogna dimenticare che in queste zone l’avicoltura doveva fare i conti con avversità di vario genere come i cedimenti o i crolli di edifici causati dalla neve o dagli smottamenti del terreno. Successivamente, l’esigenza di una maggiore vicinanza ai grossi mercati (ad esempio quello di Forlì, dove ogni lunedì e venerdì era possibile incontrare produttori e commercianti del settore), la possibilità più elevata di reperire manodopera qualificata, il più facile approvvigionamento di mangimi e la vicinanza di industrie collaterali, fecero sì che dopo pochi anni la più alta concentrazione di impianti si collocasse proprio nelle fasce collinari basse e pianeggianti dei comprensori forlivese e cesenate.
Questa differenziazione si accentuò particolarmente per gli allevamenti di galline ovaiole, che necessitavano di maggiore cura e preparazione tecnica; con qualche ritardo, specialmente nel cesenate, iniziarono a comparire grossi insediamenti di galline ovaiole che trovarono nella valle del Savio le condizioni ideali per un’ottima resa.
La pianura, caratterizzata come abbiamo visto da numerosi poderi di piccole dimensioni, favorì inoltre un passaggio più graduale e quindi più ponderato dell’allevamento avicolo da attività familiare di bassa corte ad attività a carattere imprenditoriale. Le caratteristiche di base dell’allevamento avicolo attirarono l’attenzione di quegli imprenditori che desideravano trovare un’alternativa alla professione esclusivamente agricola per integrare il basso reddito fornito da terre fertili, ma coltivate con metodi che ancora risentivano di una certa arretratezza.
Mentre nelle zone collinari alte e montuose molti agricoltori avevano abbandonato il lavoro agricolo per dedicarsi esclusivamente all’avicoltura, numerose famiglie contadine della pianura cominciarono invece a praticare parallelamente le due attività, ottenendo risultati soddisfacenti.
L’avicoltura intensiva inizialmente fu svolta come attività part - time. La discontinuità delle esigenze legate al lavoro agricolo consentiva all’agricoltore di creare un’alternativa e di dedicarsi così anche all’allevamento razionale : era infatti sufficiente un po’ di programmazione per far coincidere i lavori più gravosi di una attività con il periodo di minore impegno richiesto dall’attività collaterale. Lo stesso discorso vale anche per i lavoratori non agricoli che, proprio per lo scarso impegno richiesto inizialmente dall’avicoltura, non furono costretti ad abbandonare l’attività che svolgevano precedentemente.
Questo sistema di conduzione, attuato in numerosi casi, soprattutto quando si trattava di allevamenti di piccole dimensioni, si rivelò la formula vincente in un settore che faceva sperare in facili realizzi ma presentava anche numerose incognite. Solo in un secondo tempo, quando gli impianti raggiunsero grandi dimensioni ed alti livelli di produttività per soddisfare una richiesta di mercato alta e sufficientemente stabile, fu possibile un impegno a tempo pieno da parte degli addetti e l’avicoltura si trasformò definitivamente in attività a sé stante, anche se molti agricoltori dedicatisi all’allevamento continuarono comunque a coltivare la terra passando a colture estensive richiedenti un minor impegno di manodopera e facendo uso di moderni macchinari.


I CAPITALI: inizialmente i capitali necessari per i nuovi impianti, generalmente di piccole dimensioni, furono in massima parte forniti dagli imprenditori stessi attingendo al risparmio privato. Si trattava di una attività sorta in economia per la quale non erano ancora necessari grossi investimenti, ed anzi si può affermare che una delle caratteristiche che indirizzarono gli imprenditori verso l’allevamento agricolo fu proprio il costo iniziale relativamente basso, accompagnato da rapidi cicli produttivi che non immobilizzavano grosse quantità di denaro poiché già dopo pochi mesi il capitale impiegato cominciava ad essere ammortizzato. Solo in seguito, dalla fine degli anni sessanta, col verificarsi di una sempre maggiore specializzazione e la necessità di vasti capannoni per l’allevamento a terra, sorse l’esigenza di poter disporre di maggiori capitali.
Chi aveva saputo sfruttare il favorevole momento iniziale impiegò i guadagni realizzati per attuare le necessarie modifiche e con piccoli ma costanti miglioramenti riuscì a mantenersi economicamente competitivo. Alcuni usufruirono dei crediti agevolati per le zone economicamente depresse; altri ancora ottennero crediti bancari, riuscendo così a superare i periodi di crisi che ciclicamente, con maggiore o minore intensità, si verificavano. Molti furono, invece, gli avicoltori che scomparvero dalla scena perché incapaci di tenere il passo della trasformazione o perché schiacciati dalle prime difficoltà di mercato.
Tale processo di selezione si rivelò un fattore determinante per la qualificazione e la professionalità degli allevatori: infatti nel momento in cui il settore avicolo in costante crescita cominciò a richiedere una maggiore specializzazione all’imprenditore attraverso l’adozione di tecniche particolari, un maggiore impegno finanziario, una superiore preparazione culturale per poter comprendere le nuove tecniche e le ferree leggi di mercato, chi non volle o non seppe adeguarsi fu costretto a ritirarsi, contribuendo a fornire una immagine dell’avicoltore sempre maggiormente degna di fiducia da parte del consumatore.

L’AFFERMAZIONE: l’allevamento avicolo nella provincia di Forlì divenne dunque in breve tempo uno dei maggiori comparti del settore zootecnico. Già nell’anno 1965 la produzione annua del pollo da carne raggiunse gli 800.000 quintali (peso vivo), pari al 12-13% della intera produzione nazionale, mentre per le uova si giunse ai 500 milioni di pezzi, pari al 7% della produzione nazionale.(CCIAA FORLI’, 1966)
La potenzialità per impianto era di circa 6.500 capi, livello impensabile solo quindici anni prima quando gli allevamenti erano generalmente formati da 100-200 polli, ma destinato a raddoppiare abbondantemente negli otto anni successivi: 14.500 capi nel 1973!
Per rendersi conto dell’entità del fenomeno è sufficiente un raffronto con alcuni dati riguardanti il periodo che va dal 1945 al 1955 per l’intero territorio nazionale: la disponibilità di pollame destinato al consumo alimentare, proveniente dal mercato rurale interno e dagli allevamenti intensivi esteri ( in maggioranza francesi e olandesi) si aggirava intorno ai 650.000 quintali, con un consumo medio annuo pari ad un chilo e mezzo pro - capite!
Nel 1966, dunque, l’avicoltura si era già posta ai vertici della produzione zootecnica provinciale: il valore del prodotto lordo vendibile corrispondeva infatti al 35% di tutta la produzione agro - zootecnica, valutata in circa 150 miliardi annui. All’inizio degli anni ottanta, quando il settore aveva ormai raggiunto una certa stabilità, la avicoltura collocava la provincia di Forlì al primo posto nella graduatoria delle province italiane per la produzione zootecnica.
Lo sviluppo del settore contribuì in maniera consistente a contenere entro certi limiti lo spopolamento delle campagne e creò, seppure gradualmente, nuove possibilità occupazionali a mano a mano che l’attività cresceva e si allargavano i rapporti fra produzione ed industrie.
Il settore occupava, nel 1965, 3.326 addetti, di cui 2.673 fissi e 653 occasionali. Gli addetti fissi erano 1.928 nel comparto del pollo da carne, 420 nel comparto delle galline ovaiole da consumo, 271 nel comparto delle galline ovaiole da cova. In complesso nel 1965 risultava una media di 10.617 capi per addetto. Specifiche ricerche accertano in seguito che per una buona utilizzazione degli impianti era necessario giungere ad un livello di 30-40.000 capi per impianto negli anni ottanta.
Con un numero così elevato di capi per addetto, si potrebbe pensare ad una scarsa occupazione nel settore; in realtà, se escludiamo alcune grosse aziende, la maggior parte degli allevamenti erano di ridotte dimensioni e l’occupazione riguardava, come già abbiamo accennato, l’intera famiglia dell’avicoltore, anche se solo a tempo parziale perché impegnata anche nell’attività agricola (fattore, questo, di difficile rilevazione). Bisogna poi tener presente che ai produttori si affiancarono, strada facendo, altre figure professionali che svolgevano attività nate per contemplare il ciclo fino al consumatore o per curare la realizzazione degli impianti e degli accessori, creando numerosi posti di lavoro. All’inizio degli anni ottanta, infatti, stime approssimative indicavano un raddoppio del numero complessivo degli addetti del settore, e forse peccavano in difetto! -"

LE DIFFICOLTA’: non fu una crescita indolore, quella che i dati, così altisonanti, mostrano e farebbero presumere. Gli operatori del settore, in realtà, dovettero affrontare numerosi problemi non solo di ordine strettamente economico, ma anche (per citarne solo alcuni) di natura fiscale e giuridica, ambientale, igienico - sanitaria, infrastrutturale.
Con l’evoluzione dell’avicoltura da attività complementare ad attività indipendente, sorsero innanzitutto vari problemi di carattere giuridico.
La prima controversia si riferiva all’inquadramento dell’attività di allevamento avicolo nel settore agricolo: secondo alcuni l’attività avicola era da considerarsi agricola, in quanto rientrante nel contesto della normativa il termine "bestiame" usato dal legislatore nell’art. 2135 del Codice Civile. A tale locuzione, infatti , si attribuisce l’accezione generica di "animali allevati per l’agricoltura o per l’alimentazione dell’uomo", compresi gli animali da cortile di qualsiasi tipo; secondo altri l’allevamento del bestiame doveva ritenersi un’attività ex se e la natura agricola rimaneva subordinata al diretto rapporto con la coltivazione del fondo.
La Magistratura emanò al riguardo sentenze contrastanti che lasciarono aperto il problema, nonostante i rilevanti riflessi fiscali che ne conseguivano.
La soluzione più ragionevole sembrava quella di inquadrare l’avicoltura tra le attività agricole riconoscendo all’avicoltore, con o senza terra, la qualifica di agricoltore, come già era stato fatto in quei paesi dove tale attività veniva praticata da più tempo.
In effetti, anche se nell’allevamento avicolo l’aia era stata sostituita dal capannone attrezzato e per nutrire gli animali si utilizzavano mangimi composti, questa attività si distaccava comunque da tutte le altre attività produttive a carattere commerciale per vari motivi:
- esistenza del rischio biologico che può essere ridotto ma non eliminato;
- incertezza sull’entità, qualità, pregio della produzione, poiché influenzata da elementi non del tutto controllabili;
- impossibilità di una efficiente programmazione che preveda ed assicuri, anche parzialmente, il recupero dei capitali investiti;
- necessità di smercio in tempi brevissimi dell’intera produzione data l’estrema deperibilità del prodotto e la difficoltosa conservazione del valore della produzione non alienata.
In presenza di questi elementi l’inquadramento tra le attività agricole sembrava indubbio...
L’incertezza sull’inquadramento giuridico degli avicoltori aveva, come s’è detto, considerevoli riflessi dal punto di vista fiscale. Secondo il D. P. R. del 29 marzo 1973, l’attività avicola era considerata agricola solo nel caso in cui venisse svolta su terreni che avevano la possibilità di produrre almeno il 25% dei mangimi necessari al sostentamento dell’allevamento. L’allevatore, in questo caso, era tenuto a pagare l’imposta locale sui redditi e l’imposta sui redditi delle persone fisiche, calcolandone l’entità attraverso l’applicazione di coefficiente, stabilito annualmente dal Ministro delle Finanze, alle tariffe del reddito dominicale ed agrario che veniva attribuito dall’Ufficio Erariale dei Terreni. Il 25% andava però riferito alla potenzialità produttiva del terreno o nella oggettiva quantità dei prodotti ottenuti.
Gli allevatori senza terra o terra insufficiente, invece, erano tenuti a determinare i loro redditi sulla base di risultanze contabili, poiché in questo caso l’attività diretta dell’allevamento era da considerarsi, agli effetti fiscali, come attività commerciale.
In questo modo, pur trovandosi in presenza di identiche attività che presentano i medesimi rischi, la legge prevedeva due diversi criteri di determinazione del reddito provocando sperequazioni fiscali e penalizzando quelle aziende che non avevano terreno.
Durante il ventennio 1960-80, che vide il grande sviluppo delle imprese avicole, furono promulgate diverse leggi per adeguare la normativa esistente alla trasformazione ed allo sviluppo del settore agricolo ed avicolo in particolare. Solo nel 1984, però, con la legge n. 240 del 15 giugno, si fece un po’ di chiarezza, riconoscendo alle "imprese cooperative e loro consorzi, che trasformano, manipolano e commercializzano prodotti agricoli e zootecnici propri o dei loro soci", l’inquadramento nel settore dell’agricoltura. Solo nel caso in cui le aziende ricorressero "normalmente ed in modo quantitativo ad approvvigionamento dal mercato di prodotti agricoli e zootecnici in quantità prevalente rispetto a quella complessivamente trasformata manipolata e commercializzata", era previsto l’inquadramento nei settori dell’industria o del commercio. Alcuni problemi sorsero anche sul versante ambientale ed igienico - sanitario.
Gli allevatori si resero conto molto presto che sotto questi aspetti l’allevamento intensivo aveva necessità particolari e comportava anche numerosi rischi.
L’ambiente influisce sugli animali, non solo dal punto di vista zoo - tecnico, ma anche da quello igienico - sanitario. Quando gli animali vengono allevati in condizioni ottimali di temperatura, ventilazione e luce, si ottengono elevate produzioni di carne ed uova il più economicamente possibile; se tali condizioni però non esistono o esistono solo parzialmente, possono comparire stati patologici più o meno gravi, da cui derivano perdite economiche anche rilevanti.
Per questo motivo gli allevatori furono costretti a porre particolare attenzione ai problemi del "macroclima" e del "microclima", cioè all’esterno ed all’interno dell’allevamento, per poter creare condizioni climatiche ottimali.
Gli operatori del settore si resero conto ben presto che già la scelta del terreno su cui effettuare la costruzione aveva una importanza rilevante per i pollai destinati all’allevamento a terra: terreno ideale sarebbe quello sabbioso o ghiaioso posto su una leggera pendenza per assicurare un drenaggio naturale e l’eliminazione dell’acqua superflua. Quando il terreno non presentava tali caratteristiche, gli allevatori furono costretti a provvedere con opere alternative.
Anche la posizione si rivelò importante: per ottenere una buona aerazione interna sono infatti preferibili ubicazioni un po’ elevate con una buona ventilazione naturale; l’esposizione migliore è quella che garantisce la massima insolazione unitamente alla difesa da venti troppo forti. Importantissima per l’allevamento e per le lavorazioni ad esso collegate è anche la facile disponibilità di acqua. Un’altra condizione indispensabile per un’alta produttività fu per gli allevatori la continuità dell’illuminazione interna: quando la luce del giorno comincia a scarseggiare, è infatti necessario provvedere con una buona illuminazione artificiale per consentire agli animali di alimentarsi anche di notte.
Nelle zone di localizzazione degli impianti, data l’impetuosa crescita del settore, fu anche necessario disporre di strumenti atti a far rispettare i principi di densità e di distanza indispensabili per non creare problemi di sovraffollamento. Dal rispetto di queste condizioni dipendono infatti sia il mantenimento di un soddisfacente stato sanitario, sia la qualità del prodotto finito e il contenimento dei costi di produzione.
Nonostante l’allevamento del pollo da carne sia una delle poche attività zootecniche che non danno origine a liquami, ma solo a rifiuti organici solidi e facilmente trasportabili, e non si presentino quindi grossi problemi per gli scarichi altamente inquinanti tipici di altre attività zootecniche, una ubicazione degli allevamenti alla periferia o nelle immediate vicinanze dei centri urbani si rivelò altamente sconsigliabile perché i cattivi odori e le eventuali polveri potevano arrecare disturbo alla popolazione. A tale riguardo, agli inizi degli anni ottanta fu emanata una normativa per regolamentare e limitare l’insediamento zootecnico di qualsiasi tipo nei pressi dei centri abitati.
Per ottenere e mantenere i fattori ambientali ottimali, gli allevatori furono costretti a ricorrere alla collaborazione di tecnici progettisti e di veterinari igienisti; operando in questo modo si giunse alla progettazione e realizzazione di capannoni in grado di ottimizzare le condizioni di isolamento termico, di ricambio di aria, di luce, a seconda delle diverse esigenze determinate dall’ubicazione. La scienza veterinaria diede invece un consistente aiuto per il mantenimento di un buono stato di salute degli animali: gli allevatori si orientano così verso un sistema di allevamento a ciclo unico, con periodi di riposo per consentire, tra un ciclo ed il successivo, la pulizia e la disinfestazione integrale degli ambienti, in modo tale da rompere la catena di trasmissione di eventuali malattie.
Oltre al rispetto di queste norme di igiene generale, gli allevatori furono costretti a tener conto di altre regole particolari, non eludibili per una corretta gestione dei moderni allevamenti intensivi. Tali regole riguardano: la densità dei capi allevati per metro quadrato; lo stato di mantenimento della lettiera; il sistema di raccolta delle deiezioni; il tipo di posatoia; la opportuna dislocazione delle mangiatoie e degli abbeveratoi; il sistema di raccolta delle uova. La non osservanza di queste fondamentali norme poteva far insorgere vere e proprie epidemie in grado di decimare l’allevamento. Particolarmente nell’allevamento a terra dei polli da carne era ed è presente il rischio delle infezioni ed in particolare della coccidiosi. Questa patologia, cui già si è fatto cenno, può essere prevenuta e limitata solo attraverso una scrupolosa cura della lettiera e la somministrazione di coccidiostatici in fase di prevenzione. -"

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