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Data : 7/2/2005
Cenni storici sull'agricoltura


1. L’avicoltura nell’antichità
Risale alla notte dei tempi il passaggio dal nomadismo ad una vita stanziale, con il progressivo abbandono della caccia e della pesca per l’agricoltura e con la sperimentazione di forme di convivenza sociale necessarie a far fronte ai bisogni primari di una comunità : tra questi l’approvvigionamento alimentare. Si passò così da un primitivo sistema di raccolta casuale di vegetali ad una produzione agricola razionale basata sui primi rudimentali metodi di coltivazione; contemporaneamente fu avvertita la necessità di reperire quantitativi di carne, che caccia e pesca non sempre potevano assicurare con continuità.
Agli albori della civiltà, all’uomo cacciatore e raccoglitore dei prodotti che la natura offriva spontaneamente si affiancò l’uomo agricoltore ed allevatore.
Nella maggior parte dei casi, queste due attività, che richiedevano esigenze diverse e venivano svolte da soggetti diversi, sfociavano in contrasti ed antagonismi che si inasprivano fino al punto di trasformarsi in vere e proprie guerre civili. Gli esempi più noti di questi contrasti ci furono nell’Inghilterra Elisabettiana e nell’Ovest americano: protagoniste nel primo caso le pecore, nel secondo le vacche, i cui allevamenti erano entrambi incompatibili con le coltivazioni agricole.
Diverbi ed attriti anche nell’avicoltura, delle cui origini non esiste però una documentazione storica omogenea ed attendibile a cui fare riferimento, tanto più che con tale termine si comprendono vari tipi di allevamento: da quelli di polli da carne e di galline ovaiole, a quelli di tutti gli altri uccelli che hanno un interesse economico ed alimentare, come tacchini, faraone, piccioni, quaglie ed anatre.
Se da un lato però la gestione comune del podere e del pollaio da parte della stessa famiglia contadina riuscì a contenere, entro i limiti dei contratti agrari, l’estensione dei conflitti, dall’altro la contrapposizione di interessi fra proprietario e colono, di cui ci parlano già gli scrittori latini Varrone e Columella, ai quali si devono i primi cenni storici sugli allevamenti avicoli, anticipò quella che per secoli fu la lotta fra concedente del fondo, che tendeva a limitare il pollame di esclusiva proprietà del contadino per evitare che questo arrecasse danno alle colture col suo libero girovagare per le campagne, e l’allevatore che tendeva ad aumentare il numero dei capi nel proprio interesse. Dai testi degli scrittori latini emerge una precisa descrizione del pollaio rurale, identico a quello riscontrabile in Italia fino all’inizio di questo secolo, consistente in una piccola costruzione adiacente alla casa della famiglia colonica e molto simile ad una capanna edificata con materiali rudimentali, nella quale trovavano ricovero, oltre polli e galline, tutti gli animali di piccola taglia come oche, anatre, tacchini , conigli ed altre specie.
Presso i Romani l’avicoltura conobbe un periodo di splendore, dato che essi consideravano i polli animali da preservare da morte precoce perché spane di un nutrimento essenziale quale l’uovo. Vigeva quindi la norma che si potevano uccidere e mangiare solo galline non più in condizione di deporre uova e vecchi galli non più utili alla riproduzione.
Nell’era dell’antica Roma, prima dell’Era cristiana, era praticata la speratura delle uova consistente nell’esame delle stesse con una adeguata spane luminosa per determinarne l’avvenuta fecondazione; inoltre erano conosciute ed apprezzate le qualità fertilizzanti della pollina.
Molto prima delle invasioni barbariche veniva praticato l’allevamento di bovini, cavalli, maiali, pecore e capre. In età romana si aggiunsero alla lista i polli, giunti con ogni probabilità in Italia dalla vicina Grecia.
Le razze allevate erano principalmente quelle dette dorate, a piumaggio bruno, con remiganti e timoniere nere, che venivano preferite alle razze bianche, in quanto più difficilmente preda degli uccelli rapaci. Molto remunerativo e relativamente "specializzato" era l’allevamento del pavone che, solo dopo la scoperta dell’America, verrà sostituito dal tacchino come grosso volatile da mensa. Dalla stessa America, unitamente al tacchino, verrà importato anche il granoturco che determinerà una importante evoluzione nell’alimentazione di tutte le specie avicole, sostituendo gradualmente parecchi cereali usati fino ad allora, che erano, come risulta dai consigli del già ricordato Columella al tempo dell’imperatore Tiberio, l’orzo e la veccia pestati, la cicerchia, il miglio, il panìco, il loglio bollito e la crusca non del tutto separata dalla farina.
Il gravissimo disordine economico e sociale che seguì alla caduta dell’Impero Romano D’Occidente (476 d.C.) comportò un regresso generalizzato delle attività agricole che coinvolse anche l’avicoltura e la sua popolarità.

2. L’avicoltura moderna
Nel medioevo l’avicoltura divenne un’attività puramente secondaria dell’economia rurale, considerata esclusivo appannaggio delle donne, tenuta per questo in scarsa considerazione dagli stessi contadini di sesso maschile ed esclusa perciò da ogni serio tentativo di razionalizzazione, anche se l’animale di piccola taglia poteva essere nutrito con maggiore facilità rispetto al bestiame pesante a causa delle grandi superfici ancora coperte da foreste o abbandonate all’incolto, che non permettevano un adeguato pascolo per i bovini e gli equini.
Nel tardo medioevo in una azienda di piccole dimensioni si potevano trovare 1 gallo e 6 galline con 2 cavalli, 2 vacche, 1 maiale: il pollame era però non solo scarso , ma anche sotto utilizzato dal momento che nella migliore delle ipotesi una gallina produceva 80-100 uova all’anno e quasi mai si verificava un aumento della produzione.
Le uova venivano prevalentemente usate ai mercati come povera merce di scambio con altri prodotti che il podere non produceva o come regalie per il proprietario del fondo ed il loro alto valore biologico di proteine non veniva sfruttato per integrare la misera alimentazione delle classi rurali.
Nel Capitulare de villis , documento redatto durante l’impero di Carlo Magno che emanava le disposizioni per la gestione delle aziende agrarie imperiali, il punto 3 enuncia : " I nostri intendenti non presumano di servirsi personalmente dei famigli delle nostre aziende e di farli lavorare a loro profitto : non accettino da loro alcun dono, né cavallo, né bue, né vacca, né maiale, né capretto, né maialino da latte, né agnello, né altra cosa, eccetto bottiglie, ortaggi, frutta, pollame e uova". Questo documento testimonia come l’uso di utilizzare il pollame e le uova come regalie, quando non addirittura come parte del pagamento in natura degli affitti, risale ad epoche molto remote.
Ed ancora agli inizi del nostro secolo, anche se in misura minore dato che il denaro iniziò a sostituirsi ai pagamenti degli affitti in natura o in lavoro (nelle curtes dei sec. XII-XIII), è riscontrabile l’usanza di regalare pollame e uova ai proprietari del fondo o a chi li rappresentava ed i primi beni non più barattati furono proprio quelli di difficile conservazione o prodotti solo in scarsa quantità, fra cui le uova.
L’alimentazione delle classi rurali era costituita da una dieta molto povera a base di cibi vegetali come: ortaggi e cereali sotto forma di pane o di pappe, in particolare segale, orzo e avena, meno care del frumento. La carne e il pesce, per le difficoltà di conservazione, potevano essere consumati soltanto secchi o salati e comunque avevano, insieme ad altri prodotti come il latte, il burro ed i formaggi, prezzi sempre più elevati di quelli dei cereali. La carne fresca, in prevalenza cacciagione, era consumata assai raramente.
Evidente, dalle cronache del tempo, era la mancanza nelle abitudini alimentari sia del pollame, consumato solo nelle grandi occasioni, che delle uova.
Col passare del tempo la carenza di cibo causata dalle devastazioni dei raccolti, dalle guerre e dalle calamità e le cattive abitudini alimentari rendevano sempre più evidenti i segni della malnutrizione, aprendo la via al dilagare delle epidemie.
"- Le epoche immediatamente successive al Medioevo non registrarono importanti mutamenti per quanto riguarda l’allevamento agricolo, che rimase interesse esclusivo della piccola proprietà contadina e della classe mezzadrile ed emarginato dai mutamenti che invece si stavano verificando in altri settori della zootecnia, in particolare in quelli del bestiame di grossa taglia (bovini, equini e suini). La mezzadria, nell’epoca dei Comuni sotto l’influenza del nascente capitale, aveva rappresentato un primo moto verso forme più moderne dell’industria agraria per poi cristallizzare, per necessità proprie del contratto, rapporti di produzione destinati a diventare ben presto anacronistici, trasformandosi in un serio ostacolo allo sviluppo delle forze produttive.
Dal medioevo ai primi anni di questo secolo, l’avicoltura ha "vivacchiato" come attività puramente secondaria dell’economia rurale, continuò quindi ad essere praticata come attività puramente collaterale per soddisfare i bisogni marginali della famiglia ad esclusivo appannaggio delle massaie e fu esclusa da qualsiasi tentativo di razionale evoluzione e sviluppo. -"
Nel 1899, ad opera della Consociazione Modenese, notiamo in Italia i primi seri tentativi di miglioramento degli "animali da cortile" attraverso l’importazione di gruppi scelti dalla Francia e l’affidamento ad agricoltori appassionati, veri pionieri dell’avicoltura razionale e moderna. In seguito, nel 1909, dal Congresso degli avicoltori tenutosi a Como uscì un ordine del giorno in cui, tra l’altro, si auspicava che il Governo istituisse una o più stazioni sperimentali di avicoltura per far progredire le conoscenze su un settore che cominciava a manifestare tutte le sue possibilità nel campo zootecnico.
La prima Stazione Sperimentale di Pollicoltura che venne costituita fu quella di Rovigo nel 1917; essa iniziò a funzionare sotto la guida del Prof. Alessandro Ghigi, considerato il grande promotore dell’avicoltura intensiva italiana.
Con lo scopo di servire da esempio e da insegnamento per l’allevamento, e per moltiplicare ceppi di polli destinati alla intensificazione del patrimonio avicolo nazionale, nel 1926 fu approvato un decreto legge grazie al quale alla Stazione Sperimentale di Rovigo vennero affiancate 34 Stazioni provinciali di Avicoltura, divenute successivamente Centri Avicoli.
Attraverso l’opera di questi istituti si poté redigere una carta geografica avicola che divideva il nostro Paese in tre grandi zone : la prima comprendeva Veneto, Lombardia, Emiliana e Romagna, Marche e parte dell’Abruzzo dedita all’allevamento e alla produzione di carne e uova ; la seconda comprendeva Piemonte e Toscana abbastanza ricche di allevamenti ; la terza comprendeva l’Italia Meridionale, Sicilia e Sardegna, con produttività limitata ed insufficiente a soddisfare le esigenze locali.
Nel 1931 venne fondata la "Rivista di Avicoltura", su iniziativa del Prof. Ghigi, per preparare gli avicoltori italiani al quinto Congresso Mondiale di Avicoltura e per stimolare il loro spirito di ricerca e di organizzazione, nella convinzione che l’allevamento degli animali da cortile sarebbe stata una di quelle industrie rurali che avrebbero potuto dare largo beneficio a chi l’avesse esercitata con passione e competenza.
"- La rivista, tuttora viva e più che mai vitale, si proponeva soprattutto di stimolare l’attenzione degli studiosi, dei ricercatori e degli stessi allevatori su problemi scientifici e tecnologici, oltre che aggiornare gli avicoltori sull’evoluzione del settore. La maggior parte della rivista, infatti, venne riservata sin dal primo numero alla pubblicazione di lavori e ricerche sperimentali relativi a problemi di anatomia, fisiologia, patologia, economia e tecnologie di allevamento. -"
La diffusione di razze selezionate di alta genealogia, generalmente importate dall’estero ed in particolare dall’Olanda, dove l’avicoltura razionale si era già sviluppata, produsse un effettivo miglioramento del pollo rurale nell’Italia centro-settentrionale, specie in Toscana, ma con la seconda guerra mondiale la ricerca e la sperimentazione subirono una battuta d’arresto anche in questo settore e molti dei progressi faticosamente raggiunti andarono perduti.
"- Gli Americani, che avevano posto i loro primi insediamenti nell’Italia meridionale, trovarono condizioni ideali per la pollicoltura intensiva, praticamente inesistente in quelle zone. -"
Nel "dopo guerra" lo sviluppo dell’avicoltura intensiva riprese, nuovamente sollecitato dalle necessità della situazione che si era venuta a creare e nelle vicinanze dei comandi interalleati iniziarono a fiorire i primi allevamenti in batteria con metodi, materiali e polli americani.
Nei primi anni ’50, partendo dalla Lombardia e diffondendosi successivamente in tutta la pianura padana, una multinazionale olandese scese in Italia per la diffusione dei suoi mangimi. Le Stazioni Provinciali di Avicoltura, create prima della seconda guerra mondiale, avevano dedicato parte delle loro energie alla ricerca e alla sperimentazione alimentare e la diffusione dei nuovi metodi di alimentazione risultò determinante per lo sviluppo del settore.
Molto attiva nella sperimentazione alimentare fu la Stazione di Bologna dove venne costruito un grande pollaio, diviso in sei reparti, adibito a ricerche su variazioni alimentari per provare quali di esse fornissero i migliori risultati tecnici ed economici.
Gli allevatori scoprirono che il pollo e la gallina potevano trasformarsi da animali da cortile, assolutamente marginali rispetto alle attività aziendali, in spani di reddito primario grazie alle nuove conoscenze tecnico-scientifiche che cominciavano a diventare patrimonio comune, ma soprattutto seguendo le nuove tecniche nutrizionali : un pollo anziché produrre un Kg. di carne in 7-8 mesi, impiegando 5-6 Kg. di granaglie, poteva dare lo stesso Kg. di carne con 2,2 Kg. di mangime bilanciato ed essere maturo in 55-60 giorni; la gallina invece di 70 uova all’anno ne poteva produrre oltre 250.
Lo sfruttamento intensivo dei polli si diffuse velocemente e coinvolse numerose categorie di lavoratori, anche quelle che mai se ne erano interessate e che erano quindi totalmente impreparate. Contemporaneamente con lo svilupparsi del fenomeno si presentarono gravi problemi soprattutto legati alla diffusione di malattie epidermiche e all’improvvisazione degli operatori. Gli animali erano falcidiati maggiormente da una malattia : la coccidiosi provocata da microrganismi che si sviluppavano dal contatto degli animali con le loro deiezioni.
L’unica soluzione adottata dalla scienza veterinaria di quel tempo, non ancora in grado di trovare un adeguato rimedio e posta improvvisamente di fronte a nuove problematiche, fu quella di isolare gli animali dai loro rifiuti organici costringendoli in gabbie microscopiche che ne limitavano enormemente i movimenti.
Con il grande sviluppo del settore, legato a grandi prospettive di guadagno, si pretese troppo dal ciclo biologico dell’animale cercando di ottenere un animale maturo in sempre minor tempo ed in forzata immobilità che andava a discapito dello sviluppo muscolare, alimentandolo con mangimi di scarsa qualità e non ancora perfettamente bilanciati. Il risultato fu quello che le carni risultavano flaccide e poco saporite dato che gli animali venivano macellati non ancora maturi.
Il consumatore aveva visto diminuire il costo dei polli e aveva sperato di poter disporre di una spane di alimentazione a basso prezzo, ma all’incremento della produzione avicola, quindi dell’offerta di polli sul mercato, non corrispose un incremento della domanda e gran parte della produzione in batteria rimase invenduta.
La prima grande crisi del settore fu causata dalla scadente qualità del prodotto messo sul mercato, rispetto alla qualità dei prodotti che normalmente il consumatore recepiva dal mercato rurale.
I produttori si resero conto dell’errore commesso e cercarono soluzioni alternative che, permettendo un’alta produttività, rispettassero maggiormente le esigenze biologiche degli animali. Non tornarono ai sistemi tradizionali, ma abbandonato l’allevamento in batteria, passarono all’allevamento a terra favoriti dalla felice risoluzione del problema della coccidiosi.
Questo sistema, pur limitando la libertà degli animali, non ne ostacolava eccessivamente i movimenti e fu possibile ottenere un’ottima resa in carne, una buona muscolatura ed uno scheletro più ossificato in grado di offrire una maggiore resistenza alle operazioni di trasporto, di prelievo e di macellazione, offrendo al consumatore un prodotto dalle caratteristiche abbastanza simili a quelle del cosiddetto pollo nostrano.
Il settore avicolo, affrontando con successo le numerose difficoltà che di volta in volta si presentavano, ha conosciuto a partire dalla prima metà degli anni sessanta una fase di decollo verticale che ha portato l’Italia ai primi posti nel mondo nella produzione della carni avicole.

3. La diffusione mondiale del pollo
Attualmente il pollo ha una diffusione mondiale, probabilmente dovuta alla relativa semplicità con cui può essere allevato ed alla sua capacità di adattamento. In certe zone è allevato intensivamente, in altre viene allevato per soddisfare il fabbisogno alimentare della famiglia o della piccola comunità: è allevato anche presso certe tribù amazzoniche, recentemente scoperte, che in precedenza non avevano avuto contatti col mondo civile.
I maggiori produttori, a livello intensivo, sono quei paesi industrializzati generalmente inseriti in una economia di libero mercato e che hanno avuto bisogno di razionalizzare le proprie spani alimentari per soddisfare le esigenze di una popolazione numericamente accresciuta. Si tratta degli Stati Uniti d’America e dei Paesi Europei.
L’esportazione dei prodotti avicoli raggiunge praticamente ogni angolo del mondo, anche se il loro consumo è molto diversificato, dato che dipende dalle abitudini alimentari dei vari popoli.
A testimonianza di come il pollo sia vicino all’uomo ovunque, abbiamo vari casi nel folklore e nella tradizione che hanno per oggetto il pollo: si pensi alle numerosissime ricette culinarie come il famoso pollo fritto degli americani, accompagnato dalle immancabili patatine e ketchup; inoltre talvolta le abitudini alimentari si intrecciano con elementi della tradizione, come accade, ad esempio, nelle regioni dell’Italia centro - settentrionale dove nel periodo natalizio, come segno di buon auspicio, viene servito il cappone che altro non è che un pollo al quale sono stati asportati i genitali con la castrazione.
Dall’Italia passiamo in Messico ed in certe isole orientali, dove il pollo non è destinato solo ad usi alimentari ma è diventato vero elemento di folklore attraverso allevamenti specializzati nella cura dei galli da combattimento: da essi escono galli che vengono fatti combattere fra di loro in apposite arene, in combattimenti cruenti e mortali per il piacere degli spettatori, stimolando anche un notevole giro di scommesse. Appare evidente, già da queste poche note, la necessità di una rivalutazione dell’immagine e della funzione di questi animali, presenti in ogni angolo della terra ed in ogni epoca della storia al servizio dell’uomo.


 

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